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“Passo dopo Passo” (Mustang, NEPAL)

Posted By Matteo Osanna On 20/10/2009 @ 21:31 In Uncategorized | 1 Comment

MUSTANG (NEPAL) – Dove vai? “In Mustang”. E dov’è il Mustang chiesi ad un portatore 11che incontrai lungo un sentiero dell’Annapurna qualche anno fa. “Il Mustang è a circa dieci giorni di cammino!” Fu in quell’istante e da quella risposta che incominciai a pensare che forse un giorno sarei venuto qui.                       Mentre il Nepal si aprì al turismo negli anni ’50, il Mustang rimase chiuso fino al 1992 e ancora oggi, la possibilità di raggiungerlo rimane limitata. Per contenere l’impatto ambientale e culturale spesso devastante che il turismo ha portato con sé in Nepal, l’accesso ai 3territori del Regno è ristretto e regolato da una precisa normativa di legge che obbliga tutte le spedizioni di trekking  a non intrattenersi per più di dieci giorni pagando peraltro un salato permesso. Il Mustang, apparteneva in origine al Tibet Occidentale quando una controversia tra Nepal e Cina sull’ appartenenza dell’Everest portò a dei negoziati dove la frontiera settentrionale del Nepal venne ridisegnata guadagnando tra questi territori anche il Mustang. Attualmente, dopo esser divenuto negli anni della2 resistenza all’invasione cinese del Tibet il rifugio dei guerrieri Khampa, conserva pienamente la propria cultura ed etnia tibetana, arrivando ad essere definito “l’ultimo Tibet”. E’ anche conosciuto come “l’antico regno di Lho” dove Lho in tibetano significa “a sud” ed è abitato  dai Loba ovvero la “gente del Lho”.  I Re del Mustang, persero l’autonomia del Regno, per scelta volontaria, quando i Gorka unificarono e crearono il Nepal nel 18° secolo. Il Re di quel periodo decise di annettersi spontaneamente al 4Nepal e pagando una tassa annuale al Governo Nepalese, riusciva a mantenere i suoi poteri e una sua giurisdizione, ovviamente solo all’interno del suo Regno. Poi nel 20° secolo le cose cambiarono. I Rana presero il potere e decisero di revocare l’autonomia del Regno del Mustang, lasciando tuttavia il nome e l’autorità al Re locale, che da quel momento aveva giurisdizione solo nelle diatribe locali e nella gestione del palazzo e dei suoi averi. Poi ad ottobre dello scorso anno, il Regno del Mustang è cessato di esistere. I maoisti hanno fatto in modo di abolire i regni che erano all’interno del Nepal, uno dei quali, appunto, il Mustang. Oltre il villaggio di Kagbeni, “la porta dell’alto Mustang”, inizia la “restrict area” e vi si può procedere solo a piedi.

Il viaggio si sviluppa lungo la valle del fiume Kali Gandaki, alle pendici 5dell’Annapurna, del Dhaulagiri e del Tilicho in un maestoso scenario di montagne, fiumi, antichi villaggi e monasteri Buddisti, una via che una volta univa il Nepal al Tibet per il commercio del sale. E’ una regione desertica, dove il vento non solo lo vedi arrivare, ma lo senti quando i sassolini ti colpiscono la faccia assumendo le sembianze di proiettili. Si sale e si scende, affrontando passi superiori a 4.ooo metri in un 6paesaggio illuminato da una luce abbagliante. In salita c’è silenzio, non si parla, il fiato serve per camminare. E’ comunque un piacere spostarsi in questi profondi canyon  le cui  sponde di roccia erosa  assumono forme e colori spettacolari  e dopo alcune ore di cammino, appaiono inaspettatamente come miraggi all’orizzonte, questi villaggi fortificati. Vengono descritti come “gemme incastonate” e forse è proprio il miglior modo per farlo.  Questi villaggi si sviluppano 7attorno ad un gompa e sono generalmente contornati da terrazze coltivate ad orzo, unico cereale che riesce a crescere a questa altitudine e che costituisce l’elemento base dell’alimentazione popolare. Esempio magico di questi villaggi è quello di Dhakmar, posto in un anfiteatro naturale di guglie rosse, in una verde prateria attraversata da ruscelli e pascoli di cavalli, dove 8le nuvole che corrono silenziose nel cielo non passano troppo lontane sopra la testa. Sembra che il Paradiso sia sceso in terra. Si dorme nelle case dei valligiani dove spesso agli ultimi arrivati capita di dormire nella stanza che funge da tempio tra lumini al burro di yak, incensi e tante divinità. Le case sono le caratteristiche costruzioni in mattoni di terra cruda intonacata, sormontate da cataste di legna e file di preghiere tibetane 9dove il bagno non è altro che un buco nel pavimento posto sopra la stalla. In ogni villaggio teschi di animali sovrastano tutti i portoni: sono trappole per gli spiriti che diffidano le forze maligne ad oltrepassare la soglia. Palettate di sterco caricano la stufa, voci di viandanti trapelano dai muri di fango. Coralli, turchesi e sorrisi dorati. Un piede avanti all’altro, “passo dopo passo” fino in fondo alla meta.

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Giungere a Lo Manthang dopo giorni di lungo cammino è per chi lo desiderava da una vita una soddisfazione unica. E’ vivere il viaggio, è ritrovarsi in quello che è stato provocandoti quella “dipendenza dal viaggiare”.  Prati verdi che si accendono e si spengono alla passaggio delle grandi nuvole, finestre colorate che appaiono come occhi truccati sui muri bianchi delle case. Piccoli ruscelli d’acqua tagliano le 111vie della cittadina, diventando un luogo di incontro per le donne che lavano vestiti e stoviglie. Le mura racchiudono la città, dove all’interno si ergono altre mura e altre case, poi il monastero e il Palazzo Reale. A Lo Manthang i monaci sono quasi un centinaio tra bambini e adulti. Per tradizione il primo figlio maschio si prende la terra di famiglia, mentre il secondo entra in monastero all’età di 5/6 anni, dove studia gradualmente per diventare Lama. Monaco e Lama non sono sinonimi, si diventa Lama dopo un lungo percorso di monachesimo. Anche se sulla piazzetta spicca un piccolo “internet point” attivo da circa un anno, per certi versi il tempo della cittadina rimane inalterato a tempi feudali e continua ad essere  “un posto nel tempo ma fuori dal tempo”, uno di quei luoghi dove l’odore della storia è ancora presente. 12Un odore che si può respirare soprattutto alla sera, quando dopo il tramonto i pastori tornano con i loro greggi e le loro mandrie ed invadono letteralmente le vie della città. “Ci si sente parte della storia”. Altro momento dov’è possibile ritrovare il profumo delle tradizioni, è capitare a Lo Manthang in occasione del Teji Festival. La manifestazione è un insieme di danze atte a descrivere “il male”, che dura 13tre giorni e che culmina con una cerimonia per sconfiggere appunto “il male”. Questo succede il terzo giorno di danze, quando il monaco principale uccide con offerte sacrificali e con frecce, un pupazzo fatto di farina che rappresenta “il male”. Per l’occasione giungono al Festival diversi turisti ma nonostante questo,  tutto è rimasto  molto genuino e ancora tanti Loba  giungono sin qui dalle lontane campagne. Ma cosa ne sarà quando la strada raggiungerà Lo Manthang e al festival ci saranno più turisti che locali?

16E’ gradita notizia sapere che a Lo Mantang  è presente da diversi anni un’equipe italiana di restauratori composta di tre elementi, che lavorano ad un progetto finanziato dall’American Himalayan Foundation con lo scopo di trasformare i contadini locali in restauratori. “Una grossa scommessa – spiega – Luigi Fieni responsabile dell’equipe visto le difficoltà di comunicazione e l’assoluta mancanza di educazione. Sembra una cretinata ma dare un pennello in mano a chi non ha mai tenuto una penna è di una difficoltà incredibile. All’inizio ci furono diverse difficoltà – continua – Luigi, visto che noi eravamo ‘gli stranieri’ che andavamo in Mustang a dare ordini, a dire cosa era giusto fare e cosa non lo era. All’inizio tutti pensavano che potevano  lavorare senza stranieri perché credevano che il restauro fosse  un’altro modo per dire ‘ridipingere’, una parola usata in quasi  tutta l’Asia, quando si parla di ‘restauri’ fatti dai  locali. Per la conservazione delle divinità poi c’era un grosso dilemma: per i buddisti, le divinità dipinte non sono solo colori e disegni ma sono le divinità vere e proprie”. Puoi spiegarti meglio Luigi? “Pensa che prima di cominciare il restauro si deve fare una cerimonia particolare con la  quale il Khenpo, l’abate del monastero, cattura le anime nei dipinti  con uno specchio cerimoniale, il Melong, e lega14 lo specchio ad una  colonna del monastero, dove gli spiriti delle divinità rimarranno fino  alla fine del restauro. In questo modo le divinità non saranno  ‘disturbate’ dall’uso di solventi o siringhe che usiamo nei vari  procedimenti del restauro”. Ci fu un momento particolare in cui vi sentiste ben accetti? “Si certo. Un giorno facemmo un tassello di pulitura al monastero di Thubchen di un paio di metri quadri. Il Re venne a vederlo e si complimentò per la grande bravura che avevamo nel dipingere. Ci abbiamo messo un quarto d’ora per fargli capire che avevamo solamente tolto la vernice invecchiata e lo sporco e quello che vedeva erano dipinti originali del xv secolo. Da quel giorno tutto diventò più facile, i Loba si resero conto che avevano bisogno di noi e piano piano divenimmo parte del villaggio, completamente integrati e accettati”. Quanto tempo trascorrete in Mustang? “Il 15contratto annuale dipende dal budget ed il periodo varia dai 5 ai 6 mesi ogni anno. Fino al 2004 li passavamo tutti in Lo, poi dal 2005 sono cominciate le rogne con il Governo Nepalese, che ci bloccava, anche per due mesi a Kahtmandù con le scuse più stupide, del tipo ‘perché dobbiamo pagare degli stranieri per fare qualcosa che sappiamo fare benissimo?’”. Perdonami se sbaglio, ma credevo non fosse il Governo Nepalese a pagarvi…. “Infatti… i fondi sono sempre stati americani e i nepalesi non hanno mai pagato un dollaro, per non parlare del fatto che in più ci guadagnano visto 17che paghiamo anche le tasse in Nepal”. Lavorate per questo paese e vi fanno pagare anche le tasse? “Per farla breve da quando ci sono i Maoisti dove il governo può chiedere mazzette ci va a nozze. Non che prima non ci fosse stato quel problema ma si è sicuramente accentuato. Fino al 2008 i nostri permessi erano gratuiti visto che lavoravamo per il Mustang. Da quest’anno le autorità hanno optato per il ‘chi se ne frega’ e la Fondazione ha dovuto sborsare 16.000 dollari per i nostri permessi, soldi che avrebbe potuto spendere per il Mustang. Il Mustang – conclude – Luigi Fieni  si prende solo il 10% dal trekking permit, tutto il resto va nelle tasche dello ‘Stato’ nepalese”.

Mentre anche io penso alla mia di conclusione, mi viene in mente “l’internet point” sulla piazzetta centrale proprio di fronte alla scuderia dei cavalli del Re e come mai in questo caso il contrasto è forte: due porte, poste una di fronte all’altra, due tempi opposti e distanti diversi secoli che si guardano senza toccarsi, una rappresenta il medio evo e  l’altra il futuro, un futuro che altrimenti sarebbe difficile da vedere e da raggiungere per chi abita qui. Un bene o un male?

Matteo Osanna

P.S. Dopo una conversazione con Luigi Fieni, il mio pensiero è tornato ad una mia vecchia teoria:  la differenza tra “vivere” in un paese  e “visitarlo”  è abissale, sono due cose completamente diverse. Quello che spesso appare  come oro che luccica agli occhi del turista  non è la stessa cosa per uno del luogo. Ringrazio Luigi per la sua infinità disponibilità e per le sue importanti delucidazioni presenti oltre che nell’intervista, anche all’interno dell’articolo. Auguro a lui e a tutta la sua equipe un buon prosieguo di lavoro in Mustang.

Foto Mustang:

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