• 03mar

    Peter è un gigante alto e asciutto di due metri di origini Ugandesi. Ha compiuto da poco 24 anni ed è il sesto di 7 fratelli. La sua è unaIMG_1628 delle tante storie africane dalle mille sfaccettature, tutte storie diverse ma in fondo tutte uguali.
    Non la voglio raccontare per violare la sua privacy, lui sa che l’avrei raccontata, dovevamo addirittura farne un video ma la voglia di viaggiare e del viaggiare liberi ha preso il sopravvento.  La voglio raccontare perché Peter pur essendo di 15 anni più giovane del sottoscritto rappresenta per me un esempio e vorrei lo fosse anche per voi, che fosse ambasciatore delle sue genti fra le nostre genti.
    IMG_1500All’età di nove anni lascia la sua famiglia e si dedica alla vita di strada, frequentando cattive compagnie e comportandosi di conseguenza fino a quando nell’anno 2005, all’età di sedici anni un educatore di Koinonia, (la comunità fondata da Padre Kizito), lo invita ad entrare in uno dei loro centri situato nella periferia di Nairobi e lui accetta. Qui inizia e riceve un’educazione e nel 2012 finisce le scuole superiori. Attualmente porta avanti i suoi studi frequentando ogni sera a Nairobi un corso annuale di “video production” e nello stesso tempo di giorno, lavora presso un ristorante.
    La mamma di Peter è Ugandese, ma vive a Nairobi nello slum di Kibera da quando si è lasciata con il suo quarto marito. Partì a metà degli anni 90 con sua sorella in cerca di un lavoro e lasciarsi alle spalle un difficile passato, staccandosi anche dalla propria madre rimasta a vivere in Uganda.
    Si sposò dunque quattro volte e con ogni marito ebbe un figlio, tre maschi e una femmina. I suoi IMG_1517mariti morirono tutti per malattia o per disgrazia, il primo per esempio venne ucciso e trovato morto nel bosco in quel periodo di guerriglia noto anche come Uganda Bush War, la guerra civile degli anni ottanta.
    Una volta arrivata in Kenya si sposò per la quinta volta e diede alla luce due maschi ed una femmina, tra cui Peter.
    Peter l’ho conosciuto lo scorso anno a Nairobi frequentando i centri di Koinonia. Mi accompagnava ovunque per gli slum della capitale di cui ne conosceva IMG_1525accuratamente ogni angolo ed ogni persona. Era il mio custode, è un ragazzo  che ha il dono naturale  della “grazia”, potresti cambiare il suo nome anche con quello di un dolcissimo frutto.
    Fu sei mesi fa che nacque l’idea e mi fu strappata la promessa di questo viaggio in Uganda, ed in Africa ogni promessa è un debito. Nella maggior parte dei casi infatti, le parole che tu dici soprattutto se è una promessa oppure una predica loro non lo dimenticheranno mai e te la riproporranno nel tempo, hanno una memoria IMG_2017incredibile.
    Peter vide per l’ultima volta sua nonna nel dicembre 2009, ora dopo cinque anni sente il bisogno di rivederla, ma soprattutto ha voglia di vedere come sta dopo l’intervento chirurgico del 2011, quando in seguito ad una brutta infezione gli dovettero amputare una gamba. “Era una gran lavoratrice – racconta Peter – ora può sbucciare soltanto noccioline”.
    IMG_1686Credo che in Peter ci sia la volontà e la determinazione di voler fare un viaggio di ritorno alle origini, ora che è cresciuto gli importano cose che prima trascurava, vuole riscoprire e confrontarsi con il suo passato, vuole vedere dove sono finite le radici di quest’albero dalla storia così complicata.
    Partiamo da Nairobi e su di un bus ricco di umanità, dopo 17 ore di viaggio, in “perfetti tempi” africani raggiungiamo la cittadina di Entebbe situata sul grandeIMG_1674 Lago Vittoria una ventina di kilometri a sud della capitale Kampala.
    Peter è atteso da Maikol, suo fratello primogenito, l’unico dei sette che in realtà “ce l’ha fatta” guadagnandosi con sacrifici ed un pò di fortuna una vita di tutto rispetto: un europeo si è fidato di lui e gli ha affidato una piccola ditta di trasporti per turisti. Ora ha tre macchine private di sua proprietà con le quali ci lavora, ha lasciato la sua capanna per vivere in una bella casetta in muratura con giardino assieme alla moglie e due bambini. Si può concedere anche una giovane governante, che lava e cucina tutto il giorno, che per rispetto non alza mai lo sguardoIMG_1667 e che sempre per rispetto ogni volta che ti serve lo fa con un inchino. La casa è ancora in via di allestimento, i bagni sono esterni e la doccia è a secchio. Qui per la prima volta, da quando lo conosco, ho sentito Peter sentirsi chiamare zio.
    Chiedo a Peter dove sono gli altri due fratelli, sa che sono vivi, che vivono nei dintorni di Kampala ma non sa dove sono, neppure Maikol il fratello maggiore che vive lì, lo sa.
    Dopo due giorni l’ultimo inchino della giovane governante saluta la nostra partenza verso Mbale, inutile cercare gli altri due fratelli in una città con oltre 2 milioni diIMG_2072 abitanti senza aver alcun indizio.
    Altro giorno di viaggio, altre sette ore di matatu e bus fino alla cittadina di Mbale, poi motorino fino al villaggio della nonna, situato sulle montagne a nord di Mbale distante circa un’ora dal primo centro abitato.
    Peter in questo viaggio ha sempre saputo reagire con estrema serenità ai soliti contrattempi africani che a noi europei schiavi del tempo e della razionalità ci fanno impazzire. Mentre noi ci organizziamo, loro vivono al momento e se per esempio aspettano un bus tutto il giorno e il bus non passa, si mettono a ridere, pensando che IMG_2050probabilmente allora passerà domani!
    Ad attenderci Nora, la cugina di Peter che si occupa assieme al fratello della nonna.
    Nora è una ragazza madre con una figlia di un anno e mezzo.
    Raggiunto il villaggio siamo accolti da una serie di strette di mano e di inchini ed invitati a sederci.  E’ giunto per Peter il momento tanto desiderato: baciare, abbracciare e stringere la mano della nonna. Per i più giovani io sono una grossa attrattiva, “il muzungo”, i più piccoli di loro, l’uomo bianco non l’avevano mai visto.  L’inchino non risparmia nessuno neppure l’anziana zia.IMG_1814
    Il villaggio è situato in mezzo ad una lussuriosa coltivazione di banani e di frutti tropicali. L’abitazione è composta da una piccola capanna piuttosto malandata che funge da cucina e da una più grande fatta di bastoni incrociati che sostengono una gettata fangosa di terra rossa e sterco. Entrambe le capanne sono coperte da un tetto in lamiera non irresistibile, tutto contorto dai forti venti e dalle piogge torrenziali dei monsoni che da qui sono passati.
    C’è una sola lampadina alla quale c’è attaccato un filo che porta ad ore alternate la corrente elettrica.
    IMG_1905Non c’è acqua corrente, la si va a prendere con delle taniche giù al fiume, lontano mezzora di distanza.
    Non c’è gas, si va a raccogliere la legna in un luogo che loro chiamano “garden” ad un’ora di cammino.
    A fianco della capanna dove si cucina c’è un recinto vuoto, dove una volta c’era una mucca, che però è stata venduta, anzi svenduta per un pugno di scellini Ugandesi purché la nonna si potesse permettere l’operazione per l’amputazione della gamba.
    Una cosa che si nota subito in questi piccoli villaggi è la pulizia, la sporcizia che abbiamo visto nelle grandi città per arrivare qui è solo un lontano ricordo. Probabilmente questo equilibrio conIMG_1730 la natura è anche dato dalla non dipendenza verso i beni di consumo “usa e getta”, quindi niente cartacce, cartoni e plastiche, tuttavia quando si accumula robaccia non biodegradabile, scavano una buca e bruciano tutto.
    Amano moltissimo tenere pulito e tenersi pulititi e questo non lo capisci vivendo in città o guardando fuori dal finestrino, lo capisci quando in un posto ti fermi e ci spendi del tempo. Purché ci sia anche solo una piccola quantità di acqua reperibile a IMG_1936qualche chilometro di distanza loro si lavano tutti i giorni e per più volte al giorno.
    Anche il cortile viene spazzato per tre volte al giorno con una scopa di frasche e pettinato a nuovo.
    Il viaggio da una città come Nairobi ad un villaggio sperduto sulle montagne Ugandesi, benché parliamo pur sempre di Africa, è un viaggio nel tempo, cambiano le genti, i paesaggi e l’utilizzo dei beni di consumo. Non c’è modo migliore di esprimere questo concetto con l’esempio della banana.
    IMG_1746La banana che in città viene consumata come un frutto e non ha altra utilità qui è alla base della vita di ognuno. E’ l’alimento principale e viene presentato in tutte le salse: fritta, in umido, essiccata, alla griglia, ma soprattutto sostituisce la polenta, quello che in Kenya si chiama Ugali ed è fatta di farina di mais bianco qui è fatta di banane e si chiama Matoke.
    Anche la pianta è di notevole utilità e serve a fare molte cose: per esempio il tronco serve a pulire e lucidare il macete, mentre le foglieIMG_2046 si usano come coperchio da mettere sulla pentola, per avvolgere le banane quando le fai bollire per fare la polenta, come tovaglia pulita dove appoggiare cibi o utensili da cucina, come ombrello per riparasi dalla pioggia, oppure la si avvolge a cerchio intrecciandola e la si mette sopra la testa da cuscinetto per equilibrare ed ammortizzare ciò che si trasporta.
    Il piatto principale è naturalmente la polenta di banane, sempre presente ad ogni IMG_1753pasto, ma con un nipote che non si vede da cinque anni e con un ospite “bianco” che viene da lontano occorre fare di più, bisogna festeggiare e dare allo straniero l’onore di sgozzare la gallina, con la quale si farà il sugo per condire le banane.
    Aiutiamo la nonna a sbucciare le noccioline da tostare, andiamo con il cugino a prendere l’acqua al torrente e a far la legna al “garden” sull’altro versante della montagna socializzando un pò con tutti facilitati anche dal fatto che in ogni capannaIMG_1820 che incontriamo ci vive almeno una zia, uno zio, un cugino, una cugina, o qualche amico di infanzia di Peter.
    Anche quando scende la sera la vita continua, una vita che sembra non volere mai finire. Si mangia nel cortile di terra rossa sotto un cielo vicino, rotondo come solo il  cielo dell’equatore può essere. Poi il cessante suono estenuante di grilli e cicale ricorda che la temperatura sta scendendo e che è giunta l’ora per la nonna di essere sollevata e portata all’interno della capanna. Si va a dormire. I due anziani dormono IMG_1876in un piccolo ambiente separato dal nostro da una sottile parete di fango e da una tenda, mentre per me e Peter che dormiamo nell’altra stanza assieme ai due cugini e alla bambina ci viene offerto un piccolo letto ad una piazza da dividerci, mentre loro si stendono in terra su di una stuoia.
    Mentre i cugini bisbigliano e si raccontano le loro vite, io mi perdo con lo sguardo e con i pensieri in quel buco nel tetto che ho proprio sopra la testa dal quale posso vedere il cielo e non posso non pensare al mio cammino in questi mesi di viaggio.

    …. Per la prima volta sono riuscito a ritagliarmi del tempo per visitare anche la costaIMG_4685 di questo pezzo di East-Africa e probabilmente un viaggio solo sulla costa di 10 giorni (seppur bellissimi) fra i finti Masai, in mezzo ai paradisi artificiali dove una schiera di guardie separano i turisti dai nativi, su delle spiagge che portano il nome di isole italiane, a vedere la gara del Ray Ban più colorato, delle tette e delle labbra meglio rifatte, del fisicaccio più tatuato, delle straniere a caccia del beach-boy più bello e simpatico su cui sfogare i propri istinti, dei Vip che vogliono stare in mezzo alla gente comune facendo finta di niente e per finire ascoltare tutte le sere un karaoke stonato con sapore di sale sapore di mare, tutto questo non mi avrebbe mai potuto consentire di avvicinarmi ad un continente così complesso come l’Africa. Ma forse appunto per questo è anche così complesso perché anche tutte queste contraddizioni ne fanno parte.
    IMG_4441Quello che però mi fa strano è sentire gente che quando torna da questi paradisi artificiali è innamorata dell’Africa ed ha capito tutto dell’Africa. Ma di quale Africa?!
    Stavo dicendo che questo è un continente più complesso di quanto sembri, dove la Comunità sta alla base di tutto e solo adesso dopo diversi viaggi nel Corno, ho capito il vero significato di questa parola.
    Ci ho messo anni a capirlo e ci sono voluti diversi viaggi per scoprire che stabilire IMG_1650prima di tutto un contatto approfondito e non superficiale con loro è essenziale, ed è indispensabile non perdere mai di vista il valore umano della persona.
    Solo dopo aver stabilito un contatto, la persona sarà in grado di ascoltarti veramente e di ragionare sul fatto che anche tu potresti avere ragione, perché l’africano non solo ha la pelle dura ma ha anche la testa dura.
    Quando si parla di comunità qui non si parla di un centro chiuso come da noi, dove associamo sempre l’idea di comunità ad un discorso tossico, di malattia o in qualche IMG_1349modo ad un centro di recupero, di penitenza e proibizionismo, ad un mondo chiuso lontano anni luce dalla realtà. Quando qui si parla di comunità si parla di Africa, si parla di tutti, si parla di società, si parla di camminare insieme.
    Il centro nel quale ho vissuto era una comunità, ma era una comunità inserita in una comunità ancora più grande, dal cancello potevano entrare ed uscire senza timbrare tanti cartellini e troppe perquisizioni tutti i bisognosi per raggiungere il dispensario, tutti i ragazzi per giocare, tutte le mamme del quartiere per confrontarsi.
    Vivendo qui mi sono reso conto che la comunità più grande era quella che stava fuoriIMG_2068 e che comunità non significa separarsi ma unirsi, fondersi, appartenere l’uno all’altro. Credo che questo sia il più grande esempio di quello che debba essere veramente una comunità e di quello che deve essere il significato di questa parola.
    Quando poi scopri che un’ africano ti vuole bene, sappi che te lo vorrà per sempre, perché non ti ha giudicato subito, perché a capito che eri interessato a lui e perché ha capito che tu insieme a lui sei disposto ad un percorso insieme, qualunque esso sia.
    E allora si che davvero ti si apre davanti l’Africa.

    Matteo Osanna